Il mio ultimo giorno nella terra del Sol Levante inizia presto per gli standard occidentali di una vacanza. In realtà non avrei nessun motivo per alzarmi così presto, ma ormai sono sveglio e inizio a radunare e preparare le mie cose. Nel frattempo si alza anche Kentaro e ne approfitto per salutarlo e ringraziarlo dell’ospitalità, spero proprio di poterlo incontrare di nuovo un giorno. Mi incammino con tutti i miei bagagli verso l’ormai familiare stazioncina di Higashi-Azuma per prendere il trenino, incrocio molti studenti del liceo che sono vestiti proprio come nei cartoni animati e a Kameido entro da Starbucks a fare colazione. Non sono realmente giapponese, ma ho cominciato ad acquisire quelle piccole routine che con il passare del tempo ti fanno chiamare un posto “casa”. Oggi ho pensato di liberarmi dei bagagli lasciandoli in un armadietto alla stazione di Tokyo, così da poter girare con più libertà durante il giorno. Dalla stazione centrale ne approfitto per visitare il vicinissimo palazzo imperiale, che avevo intravisto il primo giorno ma con il buio. È una giornata davvero calda, non ai livelli di Hong Kong ma sembra quasi di essere di nuovo a Roma. Quel poco che si può vedere dall’esterno è una mezza fregatura, tanto che presto approfitto di una panchina per sedermi all’ombra e consultare la guida alla ricerca di qualcos’altro da vedere. Quando mi trovo in una capitale straniera ho questa strana predilezione per visitare il parlamento nazionale. Se vi può sembrare strano, sappiate che c’è gente che invece ama visitare cimiteri alla ricerca di tombe di persone famose, ecco, io questo lo trovo strano, forse più del visitare le case dove hanno vissuto le persone famose (ma su questo tornerò un’altra volta). Fatto sta che il parlamento non è molto lontano e ne approfitto per raggiungerlo a piedi. Purtroppo è una mezza delusione, una specie di scimmiottamento in piccolo del parlamento americano, che però non ho visitato, quindi un giorno potrei sempre pensare che quest’ultimo è un’esagerazione di quello giapponese. Non è possibile visitarlo, anzi, anche il viale che conduce all’ingresso è chiuso da un’altra cancellata. È quasi ora di pranzo e mi dirigo in mezzo ai grattacieli fino alla zona dell’hotel del mio amico, qui entro in un McDonald’s per mangiare un panino e pianificare il pomeriggio. Uno strano schermo luminoso mi bombarda a rotazione di informazioni sui prodotti del Mac e in pochi minuti sono assolutamente convinto di mangiare nel posto più salutare del mondo, oltre a scoprire che il bovino che sto addentando proviene niente meno che dall’Australia (Avresti mai pensato tu, bove, brucando erba secca sul ciglio del rosso deserto australiano, di finire nella pancia di un italiano a Tokyo? Spero di no per te, perché se io al posto tuo avessi avuto una tale notizia, sarei rimasto molto turbato). Forse influenzato dalla pesantezza del pasto, decido che un buon modo di chiudere in bellezza la mia permanenza in Giappone è visitare il museo del Sumo. Vado quindi alla fermata della metro e con estrema perizia faccio il biglietto giusto come un vero tokyese. Lo stadio del Sumo è un edificio veramente grande, si vede già dalla stazione della metro e quindi è impossibile mancarlo. La fregatura è che è chiuso e non trovo nessuna indicazioni su eventuali orari di visita. Mi faccio quindi una passeggiata nel vicino giardino di “Kyu-Yasuda”, un fresco parco con un bel laghetto al centro. Non mi do per vinto e decido di visitare il museo dell’epoca Edo, che poi è praticamente attaccato al palazzo del Sumo. Da lontano l’idea è quella di un’immensa astonave appena atterrata a Tokyo, e per chi è cresciuto a pane e mazinga non è niente di straordinario o impensabile. Visto che sono piuttosto certo di non essere il protagonista di un manga, mi avvicino con una certa cautela all’astronave, pronto a schivare di lato in caso di raggio laser. Arrivo incolume alla biglietteria dove mi spiegano come entrare nell’astronave e cosa vedere. Appena entro altre persone mi chiedono se desidero una guida che parla inglese, volontaria. Io accetto e dopo qualche minuto compare una gentilissima, simpaticissima e piccolissima vecchina con un kimono bianco che ridacchia ogni due o tre frasi e che mi guida all’interno del museo. La visita è interessantissima e il posto vale veramente la pena, se mai doveste capitare a Tokyo. È pieno di ricostruzioni in dimensioni reali, persino un intero teatro ed è tutto al coperto! La signora, che continua a farmi da cicerone e a ridacchiare, mi fa le solite domande che tutti i Giapponesi che ho incontrato mi pongono e commenta sempre annuendo e con un sonoro “Ooooh! Hi! Hi! Yes!”. Dopo quasi due ore, la mia guida si congeda molto desolata, spiegandomi che a quell’ora sarebbe arrivato un altro gruppo che aveva già prenotato la visita. Io proseguo da solo, ma senza i racconti della simpatica vecchina non è la stessa cosa, quindi decido di averne abbastanza e di tornare a recuperare i miei bagagli. Raggiungo l’aeroporto di Haneda con la monorotaia e lo trovo desolante. Ci sono pochissime persone e regna un silenzio irreale, rotto di tanto in tanto dal rumore dei carrelli elettrici. Per fortuna che c’è il Wi-Fi! Passo così in maniera insignificante le mie ultime ore giapponesi, prima di mangiare, stravaccarmi sulla poltroncina davanti al gate, telefonare a casa e aspettare la partenza del volo Japan Airlines alle 00:05 del 17 agosto (tenete bene a mente questa data).
Il volo procede tranquillo per tutte le nove ore e trentacinque, fino all’arrivo negli USA alle 17:40 del… 16 agosto (sì, il giorno prima. Grazie, linea internazionale del cambio di data)! Un’agente della dogana mi rivolge qualche domanda di routine, incuriosita dal mio strano itinerario, poi mi mette il suo timbro e mi augura buona permanenza. Con il mio bagaglio a mano arrivo fino alla partenza del trenino per il centro città e, come da indicazioni di Gabriele, scendo a Civic Center e riemergo in superficie, dove fa un freddo bestiale! Arrivo da una delle giornate più calde incontrate a Tokyo e sono in pantaloncini e t-shirt e inizio letteralmente a battere i denti, oltre a spiegarmi il perché la gente sul treno mi guardava con aria strana. Ora devo solo trovare un taxi, ma abituato all’usanza europea dei tassisti di stazionare nelle piazze, non riesco a capire come trovarlo a SF, dove a quanto pare i tassisti girano senza sosta e senza meta per tutta la durata del turno. Dopo un po’ mi dico: “proviamo come nei telefilm”, alzo un braccio e voila! Un macchione enorme con scritto taxi si ferma e mi fa salire. Il tipo pelato alla guida sembra Bruce Willis e non è di molte parole, provo a parlare del tempo ma niente, non mi dà soddisfazioni. Finalmente arrivo al mio alloggio a SF, a casa del mio amico Gabriele che però non ci sarà durante la mia permanenza. Mi apre Michael, che mi mostra la stanza e mi chiede se ho fame. Gli rispondo ovviamente di sì e mi offre un piatto di carne che riscaldo nel microonde. Fa freddino e sono stanco, quindi mi sistemo, mi faccio una doccia, avverto il mondo che sono vivo e mi faccio spiegare da Michael cosa c’è di bello da fare e da vedere a SF. Poi mi “ritiro” nei miei alloggi dove mi addormento pensando a quanto sia strano sentirsi soddisfatti di essere sotto un piumone il 16 agosto (e che il decrescere della longitudine mi indica che ormai sono sulla via del ritorno).
Nota sul titolo: altro non è che la famosissima battuta di Doc Hemmet Brown di Ritorno al Futuro, in italiano <<La domanda giusta è: “quando diavolo sono?”>>