Archivio mensile:novembre 2012

16 agosto Tokyo-SF: The appropriate question is: “When the hell am I?”

Il mio ultimo giorno nella terra del Sol Levante inizia presto per gli standard occidentali di una vacanza. In realtà non avrei nessun motivo per alzarmi così presto, ma ormai sono sveglio e inizio a radunare e preparare le mie cose. Nel frattempo si alza anche Kentaro e ne approfitto per salutarlo e ringraziarlo dell’ospitalità, spero proprio di poterlo incontrare di nuovo un giorno. Mi incammino con tutti i miei bagagli verso l’ormai familiare stazioncina di Higashi-Azuma per prendere il trenino, incrocio molti studenti del liceo che sono vestiti proprio come nei cartoni animati e a Kameido entro da Starbucks a fare colazione. Non sono realmente giapponese, ma ho cominciato ad acquisire quelle piccole routine che con il passare del tempo ti fanno chiamare un posto “casa”. Oggi ho pensato di liberarmi dei bagagli lasciandoli in un armadietto alla stazione di Tokyo, così da poter girare con più libertà durante il giorno. Dalla stazione centrale ne approfitto per visitare il vicinissimo palazzo imperiale, che avevo intravisto il primo giorno ma con il buio. È una giornata davvero calda, non ai livelli di Hong Kong ma sembra quasi di essere di nuovo a Roma. Quel poco che si può vedere dall’esterno è una mezza fregatura, tanto che presto approfitto di una panchina per sedermi all’ombra e consultare la guida alla ricerca di qualcos’altro da vedere. Quando mi trovo in una capitale straniera ho questa strana predilezione per visitare il parlamento nazionale. Se vi può sembrare strano, sappiate che c’è gente che invece ama visitare cimiteri alla ricerca di tombe di persone famose, ecco, io questo lo trovo strano, forse più del visitare le case dove hanno vissuto le persone famose (ma su questo tornerò un’altra volta). Fatto sta che il parlamento non è molto lontano e ne approfitto per raggiungerlo a piedi. Purtroppo è una mezza delusione, una specie di scimmiottamento in piccolo del parlamento americano, che però non ho visitato, quindi un giorno potrei sempre pensare che quest’ultimo è un’esagerazione di quello giapponese. Non è possibile visitarlo, anzi, anche il viale che conduce all’ingresso è chiuso da un’altra cancellata. È quasi ora di pranzo e mi dirigo in mezzo ai grattacieli fino alla zona dell’hotel del mio amico, qui entro in un McDonald’s per mangiare un panino e pianificare il pomeriggio. Uno strano schermo luminoso mi bombarda a rotazione di informazioni sui prodotti del Mac e in pochi minuti sono assolutamente convinto di mangiare nel posto più salutare del mondo, oltre a scoprire che il bovino che sto addentando proviene niente meno che dall’Australia (Avresti mai pensato tu, bove, brucando erba secca sul ciglio del rosso deserto australiano, di finire nella pancia di un italiano a Tokyo? Spero di no per te, perché se io al posto tuo avessi avuto una tale notizia, sarei rimasto molto turbato). Forse influenzato dalla pesantezza del pasto, decido che un buon modo di chiudere in bellezza la mia permanenza in Giappone è visitare il museo del Sumo. Vado quindi alla fermata della metro e con estrema perizia faccio il biglietto giusto come un vero tokyese. Lo stadio del Sumo è un edificio veramente grande, si vede già dalla stazione della metro e quindi è impossibile mancarlo. La fregatura è che è chiuso e non trovo nessuna indicazioni su eventuali orari di visita. Mi faccio quindi una passeggiata nel vicino giardino di “Kyu-Yasuda”, un fresco parco con un bel laghetto al centro. Non mi do per vinto e decido di visitare il museo dell’epoca Edo, che poi è praticamente attaccato al palazzo del Sumo. Da lontano l’idea è quella di un’immensa astonave appena atterrata a Tokyo, e per chi è cresciuto a pane e mazinga non è niente di straordinario o impensabile. Visto che sono piuttosto certo di non essere il protagonista di un manga, mi avvicino con una certa cautela all’astronave, pronto a schivare di lato in caso di raggio laser. Arrivo incolume alla biglietteria dove mi spiegano come entrare nell’astronave e cosa vedere. Appena entro altre persone mi chiedono se desidero una guida che parla inglese, volontaria. Io accetto e dopo qualche minuto compare una gentilissima, simpaticissima e piccolissima vecchina con un kimono bianco che ridacchia ogni due o tre frasi e che mi guida all’interno del museo. La visita è interessantissima e il posto vale veramente la pena, se mai doveste capitare a Tokyo. È pieno di ricostruzioni in dimensioni reali, persino un intero teatro ed è tutto al coperto! La signora, che continua a farmi da cicerone e a ridacchiare, mi fa le solite domande che tutti i Giapponesi che ho incontrato mi pongono e commenta sempre annuendo e con un sonoro “Ooooh! Hi! Hi! Yes!”. Dopo quasi due ore, la mia guida si congeda molto desolata, spiegandomi che a quell’ora sarebbe arrivato un altro gruppo che aveva già prenotato la visita. Io proseguo da solo, ma senza i racconti della simpatica vecchina non è la stessa cosa, quindi decido di averne abbastanza e di tornare a recuperare i miei bagagli. Raggiungo l’aeroporto di Haneda con la monorotaia e lo trovo desolante. Ci sono pochissime persone e regna un silenzio irreale, rotto di tanto in tanto dal rumore dei carrelli elettrici. Per fortuna che c’è il Wi-Fi! Passo così in maniera insignificante le mie ultime ore giapponesi, prima di mangiare, stravaccarmi sulla poltroncina davanti al gate, telefonare a casa e aspettare la partenza del volo Japan Airlines alle 00:05 del 17 agosto (tenete bene a mente questa data).

Il volo procede tranquillo per tutte le nove ore e  trentacinque, fino all’arrivo negli USA alle 17:40 del… 16 agosto (sì, il giorno prima. Grazie, linea internazionale del cambio di data)! Un’agente della dogana mi rivolge qualche domanda di routine, incuriosita dal mio strano itinerario, poi mi mette il suo timbro e mi augura buona permanenza. Con il mio bagaglio a mano arrivo fino alla partenza del trenino per il centro città e, come da indicazioni di Gabriele, scendo a Civic Center e riemergo in superficie, dove fa un freddo bestiale! Arrivo da una delle giornate più calde incontrate a Tokyo e sono in pantaloncini e t-shirt e inizio letteralmente a battere i denti, oltre a spiegarmi il perché la gente sul treno mi guardava con aria strana. Ora devo solo trovare un taxi, ma abituato all’usanza europea dei tassisti di stazionare nelle piazze, non riesco a capire come trovarlo a SF, dove a quanto pare i tassisti girano senza sosta e senza meta per tutta la durata del turno. Dopo un po’ mi dico: “proviamo come nei telefilm”, alzo un braccio e voila! Un macchione enorme con scritto taxi si ferma e mi fa salire. Il tipo pelato alla guida sembra Bruce Willis e non è di molte parole, provo a parlare del tempo ma niente, non mi dà soddisfazioni. Finalmente arrivo al mio alloggio a SF, a casa del mio amico Gabriele che però non ci sarà durante la mia permanenza. Mi apre Michael, che mi mostra la stanza e mi chiede se ho fame. Gli rispondo ovviamente di sì e mi offre un piatto di carne che riscaldo nel microonde. Fa freddino e sono stanco, quindi mi sistemo, mi faccio una doccia, avverto il mondo che sono vivo e mi faccio spiegare da Michael cosa c’è di bello da fare e da vedere a SF. Poi mi “ritiro” nei miei alloggi dove mi addormento pensando a quanto sia strano sentirsi soddisfatti di essere sotto un piumone il 16 agosto (e che il decrescere della longitudine mi indica che ormai sono sulla via del ritorno).

Nota sul titolo: altro non è che la famosissima battuta di Doc Hemmet Brown di Ritorno al Futuro, in italiano  <<La domanda giusta è: “quando diavolo sono?”>>

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15 agosto, Nikko: Su e giù dai templi

“Dove sono finiti il 13 e il 14 agosto?” diranno i miei attenti lettori. La risposta è che in un viaggio così lungo possono capitare giorni in cui non c’è molto degno di nota, per questo motivo vi riassumerò in poche righe cosa è successo:

Il 13 e il 14 agosto

Il 13 agosto abbiamo visitato il quartiere di Ueno, tanto cammino e poche cose da vedere. Interessante l’incontro con un autoproclamatosi poeta che con l’appellativo di “Little Dante Alighieri” perché italiani cercava di venderci fogliettini con sopra scritti i suoi haiku e la vista di fiori di loto alti un metro e mezzo che rendevano il laghetto più simile a un campo coltivato. Il 14 agosto è il mio giorno da solo a Tokyo perché Christian riparte e lo dedico alla visita del bellissimo parco Hamarikyu Teien al mattino e al santuario di Meiji Jingu al pomeriggio, con un passaggio da Yodabashi a comprare una piccola macchina fotografica istantanea Fuji.

E ora Nikko!

Nikko è una città a un centinaio di km a nord di Tokyo, che dà il nome all’omonimo parco nazionale e a un complesso di templi e santuari piuttosto interessante. Non per fare la figura dell’ignorante, ma i templi giapponesi, una volta visto uno, li hai praticamente visti tutti, per cui non è che Nikko mi abbia particolarmente entusiasmato da questo punto di vista, anche se devo ammettere che il vederli immersi nel verde arrampicati a ridosso delle montagne fa un effetto diverso che vederli soffocati tra un grattacielo e un centro commerciale. Come si arriva a Nikko? Ma ovviamente in treno! Un viaggio comodo e tranquillo, con un divertentissimo episodio. Dovete sapere che in Giappone è considerato scortese starnutire in pubblico. Proprio davanti a me una signora giapponese sta leggendo un libro (piccola digressione: per motivi a me ignoti, in Giappone rivestono libri e fumetti con una bellissima carta leggera e giallina decorata con motivi astratti, spesso con il nome del negozio sopra. Non so bene se lo facciano per non far rovinare la copertina o per mantenere una certa privacy anche riguardo alle loro letture, purtroppo, pur acquistando un manga, non sono riuscito a entrare in possesso di questa carta, si vede che la tengono solo per loro). La signora contorce la faccia in maniera buffissima. La osservo un po’ e capisco che sono tutti sforzi per trattenere uno starnuto che, purtroppo per lei, a un certo punto giungerà (molto smorzato, quasi un scciii sussurrato) facendola guardare intorno arrossita e visibilmente in imbarazzo.

La giornata non è climaticamente delle più belle, tanto che all’arrivo a Nikko c’è anche un mezzo acquazzone e un corri corri generale verso l’autobus che dal piazzale porta alla zona dei templi, acquazzone che smette praticamente appena siamo tutti stipati sul piccolo autobus. Ci sono pochissimi turisti stranieri, oltre a me ne conto altri due e anche le indicazioni non in giapponese latitano decisamente. Salto giù dal pulmino appena vedo il ponte Shin-kyo, di cui avevo letto sulla guida, ma mi rendo conto di essere l’unico a scendere, vanno tutti di fretta verso i templi. Il ponte è bello ma è una mezza fregatura: non ci si può salire sopra ed è stretto tra due grosse strade asfaltate piuttosto trafficate, però dalla giusta prospettiva e ignorando il rumore del traffico, si riesce ad avere una vista suggestiva del ponte con l’acqua che scorre impetuosa sotto e le montagne rigogliose e nebbiose sullo sfondo. Non ho voglia di aspettare l’autobus successivo e decido di andare a piedi lungo la strada che percorreva l’autobus. C’è parecchio traffico e sorpasso diverse macchine in fila, ma dei templi nemmeno l’ombra. Ho una specie di cartina per nulla fedele alla realtà che mi hanno dato all’ufficio turistico della stazione e cercando di seguirla dopo poco tempo non capisco dove sono. È una stradina di campagna tranquilla (e questo mi insospettisce, dove sono le macchine? E i turisti?) circondata da casette giapponesi di legno con alte mura perimetrali e pacifici cortiletti che si scorgono dagli ingressi. A un certo punto incontro un signore seduto e gli chiedo dove sia il tempio Rinno-ji. Questo mi indica una specie di capannone poco più in là. Piuttosto perplesso, mi avvicino all’enorme capannone (che potrebbe contenere una nave, tanto è grande) e scopro che il tempio è in fase di restauro, quindi i giapponesi hanno ben pensato di costruirci un’enorme scatola di alluminio intorno! Sulla facciata del capannone hanno stampato una riproduzione 1:1 della facciata del tempio originale. All’interno del tempio non è possibile fare foto (come in nessun tempio in Giappone) e non ci sono (o non trovo) visite guidate che non siano in giapponese; diciamo che tutto il posto è pensato più per il turismo locale che internazionale e mancheranno di continuo indicazioni scritte in caratteri a me più familiari. Continuo tutta la giornata a salire su e giù per le colline con i templi, sempre con monaci-guide che parlano solo giapponese e mettendo e togliendo le scarpe continuamente. Per fortuna che l’unica guida turistica superstite della mia cernita pre-partenza è quella del Giappone, altrimenti avrei avuto ben poca consapevolezza di quanto ho visto. Degna di nota, oltre al bassorilievo che raffigura le tre scimmiette, una sala del tempio Yakushido: vi è raffigurato sul soffitto un dragone ruggente e un monaco, dopo un lungo spiegone in giapponese, batte due pezzetti di legno tra di loro che producono, tra riverberi ed echi, una specie di rantolo che viene spacciato per il ruggito del drago. Lo fa più volte, tra gli ooooh stupiti dei giapponesi, e se si chiudono gli occhi con un po’ di fantasia si immagina il drago del soffitto ruggire.

Verso la metà del pomeriggio non ne posso più di statue di legno e gradini di pietra scivolosi e pieni di muschio, quindi decido di prendere il treno e tornare a Tokyo. La stessa pensata devono averla fatta gli altri due turisti non giapponesi, visto che siamo sullo stesso treno. Non mi siedo con loro perché vorrei farmi una dormita (sapete, siete in Giappone e vedete una faccia non giapponese, il rischio è che vi venga voglia di fare una chiacchierata), scelgo quindi un posto tranquillo in mezzo ad alcuni anziani signori giapponesi. Non sono fortunato: il mio essere gaijin attira la curiosità di un signore anziano che mi chiede in inglese di dove sono. Iniziamo a conversare e mi racconta di essere un professore di inglese in pensione, di non essere mai stato in Italia e qualche altra cosetta. Rispondo cortesemente a tutte le sue domande ma non ne faccio molte e dopo un po’ la conversazione si esaurisce. Finalmente mi addormento e mi risveglio solo in prossimità della stazione di Asakusa.

Il programma della serata, la mia ultima sera in Giappone, prevede una cena con il mio ospite Kentaro. Putroppo Kentaro mi scrive per dirmi che non ce la farà e mi indica un paio di posti in zona dove mangiare: un bento shop e un ristorante di ramen. Vorrei assaggiare i famosi spaghettini giapponesi ma non sono in grado di trovare il posto che mi ha indicato Kentaro (sapete com’è, il mio giapponese dopo una settimana ancora zoppica sullo scritto) e scelgo quindi di entrare in un posto a caso per cenare. Individuo un pub e faccio per aprire la porta ma non si apre. Ci riprovo ma ancora niente. Dall’interno del locale mi guardano con aria strana, quasi di rimprovero. Guardo la porta in cerca di pulsanti o altro, ma non ne vedo. Sconsolato penso che forse c’è una qualche regola giapponese che impedisce di entrare quando un locale è pieno o passata una certa ora. Provo in un altro locale, con l’idea che se non riesco a entrare neanche qui posso sempre andare a prendere un bento, che mi sembra di aver capito è aperto tutta la notte. La scena si ripete, sono molto scoraggiato quando osservando la porta e mi accorgo che non andava tirata o spinta, ma semplicemente e ovviamente per il Giappone fatta scorrere! Come mi aspettavo, all’interno nessuno parla inglese, ma riesco a far capire che non mangio pesce e lascio la scelta al cameriere del pub. Questo mi porta degli ottimi spiedini di pollo e una birra fresca. Poi, incuriosito dalla mia presenza, con l’aiuto di Google Translate cerca di farmi qualche domanda. La cosa funziona abbastanza bene e li diverte, tanto che presto anche qualche altro avventore iPhone-munito usa la stessa tecnica. Io rispondo sempre con dei cenni del capo (non parlano inglese, c’è poco da parlare) e loro sembrano soddisfatti. Nel frattempo c’è una partita di calcio della nazionale giapponese in tv. Finita la partita pago e vado via, tra i saluti di tutti e con gli auguri di buon viaggio. Me ne torno a casa sapendo che il giorno dopo sarà il giorno più lungo della mia vita.

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